Ciao,
Scusa l’assenteismo, ma queste settimane sono state a dir poco frenetiche.
Tanti chilometri in bici, altrettanti pianificati, parole con persone e ore infinite in treno.
Ho pedalato tanto da solo come non mi capitava da tempo, e ho riflettuto su tante parole che ho letto e ho ascoltato in questi mesi.
Oltre a “SONO STEFANO NAZZI E” etc. nei momenti pedalati sono frullati tanti pensieri, incroci e persone.
Hai presente i momenti sotto la doccia quando rivedi tutta la tua vita o ti immagini come sarà? Tutti quei pensieri che cerchi di non far arrivare sul lato conscio.
Quando pedali per tante ore e incominci a sentire la bocca della stomaco che gorgoglia, incominciano quei loop che ti spingono a fermare la bici e tornare a casa.
O a fermarsi e piangere.
Prima di tutto: è normale.
Se parli con chiunque va in bici da tanti anni di questo argomento, ti diranno tutti la stessa cosa: la forza mentale è più importante di quanta gamba c’hai.
O almeno la prima determina più cose che la seconda.
Come tutte le cose che non si possono toccare, misurare e vedere, il “focus” mentale quando si viaggia in bici è un concetto assolutamente complicato da afferrare e di cui parlare.
Senza finire in un vorticoso giro di cumbaya e frasi motivazionali, in questa puntata parliamo di cos’è per me tutta questa storia, sperando che possa risuonare con te.
Dal 2018 viaggio da solo, per periodi medi ma quasi sempre su tracce punitive (per me eh) e quasi sempre in salita.
Quando viaggi da solo non hai, banalmente, nessuno con cui parlare. O condividere una imprecazione o altro. Sei te e la strada davanti.
La salita è una cosa che amo e che ovviamente odio. In salita non puoi mollare un secondo, e quando molli il collegamento che fa il mio cervello è sempre: hai messo il piede giù perché non ce la fai più.
Anche se il collegamento è automatico, non ho mai girato la bici e sono tornato giù.
Anche in situazioni che “veramente mobbasta” ho spinto tutto l’armamentario oltre la montagna.
Questo non è per pompare il mio ego smisurato ma è per dire che alla base di tutte le cose che ho fatto in bici, c’è certamente la gamba allenata ma sopratutto una volontà di spingersi avanti e non mollare.
E questa volontà viene ovviamente prima, in tutti quei passaggi che iniziano quando guardi la bici a quando metti giù la tenda la prima notte.
Come in tutto nella bici, è una cosa che mi è arrivata per gradi e sicuramente non è cementificata.
Il primo grado è stato quello della ignoranza.
Nel primo anno in cui ho incominciato “seriamente” ad andare in bici prendevo e andavo, senza mappe, senza gps, totalmente a cazzo. Stavo fuori tutto il giorno, tornavo col buio, non pensavo a mangiare, bere, mi portavo uno zaino (!!) con l’attrezzatura etc. etc.
In questo grado non c’era lo stress, la paura, le nevrosi che vengono perché semplicemente non sapevo che c’erano.
Girare in bici era solo far andare i pedali.
Il secondo grado è stato quello del “sono troppo figo”
Presa la gamba e presa la bici bella, la fanciullesca ignoranza è andata a farsi benedire ed era solo un tenere prima i 25 km/h tutto il tempo, poi i 30, poi fare le salite sempre più veloce possibile etc. etc.
Potremmo chiamarlo anche il grado della HUBRYS.
Appena ti fai la gamba e senti il corpo che cambia ti senti un dio sceso in terra e non ci sono limiti veri.
Un’ubriacatura di testosterone senza fine in cui semplicemente pensi “posso fare tutto quello che cazzo voglio”.
Il terzo grado è stato il fallimento
Superare la soglia dei 100km non è stato facile, perché andavo in down sempre intorno agli 80. La mia tracotanza non mi permetteva di guardarmi e darmi tempo.
E allora quando non riesci a fare un cosa che ti sei messo come obiettivo un po’ perdi la motivazione. E allora che palle uscire anche al freddo. E allora vabbè dai usciamo a fare aperitivo. Tutto questo per scappare dal fallimento.
Che poi diventa una specie di limite invalicabile, che tu spingi e spingi e non ce la fai mai.
E allora che cazzo ho speso 400 € per un set di borse.
E cosa diavolo ho fatto a fare a prendere la tenda.
et cetera et cetera
Il quarto grado è la consapevolezza.
Nonostante le mie discendenze asiatiche (ma sono giapponese!), non sono proprio un fan dello spiritualismo, del nirvana, della meditazione e via così.
Non mi scorderò mai per la volta che ero in mezzo a una nuvola per 2 giorni di fila in Norvegia, a 1500 metri di altitudine, completamente zuppo e praticamente senza cibo.
Lì la catena di pensieri “ma che cazzo faccio, non ce la posso fare, basta devio vado in un hotel, prendo un treno, chiamo la guardia nazionale, è impossibile” è partita alla grande.
Ma ho fatto una cosa molto saggia: mi sono guardato indietro.
Dietro avevo questa serpentina tipica di montagna che sembrava veramente infinita.
E sai cosa? L’avevo fatta tutta. Anzi, l’avevo già fatta.
Era andata, non dovevo rifarla, era una cosa che mi ero già messo in saccoccia.
E qual è la consapevolezza a cui sono arrivato? Tutto è niente.
Con questo intendo che la sommatoria dei problemi, dei pensieri che ti tirano giù, delle cose che hai da fare sono grandi e pesanti fintanto che le sommi.
Se non le usi come mattoncini per costruirti la piattaforma per la tua forca, rimaranno ai tuoi piedi.
E allora quando ora mi arriva l’ondata di negatività - per esempio la scorsa settimana mentre mi sono fatto 10 chilometri al 14% al buio mentre nevicava - ho ripetuto il mio mantra: tanto l’ho già fatto.
Tanto, il metro che sto facendo ora fra un secondo l’ho già fatto.
Il totale, nel suo insieme, non esiste.
Esiste solo io, ora, che pedalo su sta bicicletta.
Sta sbrodolata di parole cosa vuol dire? Cosa puoi portarti a casa tu?
Questi quattro gradi forse li hai anche tu, forse ne hai tuoi proprio diversi, ma alla fine tu dentro di te sai cosa ti fa funzionare e cosa no.
La prossima volta che ti senti trascinato giù o stai “sbarellando”, concentrati sulla pedalata che stai facendo, sul qui e ora, guardati indietro e poi spingiti avanti. Rubo l’incipit di e vi metto anche io un pezzo a chiusura, che è uno dei miei preferiti:
Ciao ❤️🔥