C'è sempre quel momento, prima di ogni uscita, in cui mi fermo davanti allo specchio dell'ingresso. Un rituale quasi inconscio: aggiusto il cappellino sotto il casco, cercando quell'angolazione precisa che faccia intravedere la scritta "Copenhagen" - non troppo, giusto quel tanto che basta. Oppure mi assicuro che spunti appena quel "Slovenia" sotto al logo di The Grand Escape. Ma perché? E perché se il completo Rapha ancora è a lavare un po’ mi scazza mettere la giacca Decathlon?
Erving Goffman, nel suo "La vita quotidiana come rappresentazione", parlava della società come di un elaborato palcoscenico dove ognuno di noi recita costantemente dei ruoli. Non avrebbe potuto immaginare quanto questo si sarebbe applicato perfettamente al mondo del ciclismo moderno, dove ogni dettaglio del nostro equipaggiamento è una battuta studiata di questo copione.
Lo vedo ogni volta sui sentieri: quel breve istante di reciproco riconoscimento quando incroci un altro ciclista.
Bici in titanio, borsa sottosella Tailfin, completo PAS Normal Studios? “Fighetto”
La giacca fluo su una Bianchi? "Pannolato".
Il completo Rapha consumato al punto giusto su una Open? "Bravo".
Questi giudizi lampo emergono prima ancora che possiamo razionalizzarli.
Ma la parte più affascinante è come modifichiamo impercettibilmente il nostro comportamento in base a questi incontri. Mi ritrovo a raddrizzare la postura in sella quando incrocio gruppi con bici da 10k€, come se dovessi improvvisamente dimostrare che sì, anche io sulla mia Diverge base del 2018 sono come voi. O quella volta che, incontrando un cicloturista con i pannier su una vecchia MTB convertita, ho sentito un leggero senso di superiorità - anche nel suo sguardo.
Siamo tutti attori su questo palcoscenico, che cerchiamo di distinguerci seguendo paradossalmente gli stessi codici non scritti. Anche chi si vanta di essere "anti-sistema" con la sua Surly in acciaio e le borse cucite a mano sta semplicemente recitando un altro ruolo, altrettanto codificato.
Forse la vera libertà, come suggeriva Goffman, sta nel riconoscere questi ruoli per quello che sono: non maschere da rifiutare, ma parti naturali del nostro essere sociale. Nel frattempo, continuerò ad aggiustare il cappellino sotto il casco, sapendo che là fuori c'è qualcun altro che sta facendo esattamente la stessa cosa.
Alla fine, siamo sempre i pannolati di qualcun altro.